Viaggiare ai tempi del coronavirus. Flaminia ci racconta nel suo dettagliato diario di viaggio a Dash-E Lut, cosa vuol dire viaggiare in questo periodo.
Ho fatto il viaggio della speranza….
Panico prepartenza da coronavirus. Contatto direttamente l’ambasciata italiana che, dopo aver controllato gli ultimi aggiornamenti, mi augura buon viaggio.
Mi imbarco e stiamo fermi tre ore a Fiumicino per cambiare il fusibile di qualche lampadina della fusoliera che fa i capricci. Perdo la coincidenza. Atterro a Teheran. Invece dell’1.00 arrivo in hotel alle 6.00. Accendo il cellulare e trovo un messaggio perentorio di mamma che mi ordina di tornare a casa perché il coronavirus è arrivato anche nella capitale persiana.
Alle 8.30 suona la sveglia anche se non c’è bisogno visto che non ho dormito.
Vado alla lezione di cucina. Arriva una delle fondatrici della scuola che normalmente abita a Londra dicendo che l’amica dell’amica dell’amica che lavora al Ministero della Salute le ha detto che domani chiuderanno l’aeroporto di Teheran, quindi lei parte stanotte.
Panico! Che faccio? Sento l’ambasciata. Non ci sono aggiornamenti ufficiali.
Rimango e volo a Kerman e domani inizio il tour nel deserto lontano da coronavirus, continuano ad arrivare messaggi minatori di mia mamma, a ciò si aggiunge anche una scossa di terremoto. Ho il naso chiuso e starnuto causa dell’ aria condizionata e sbalzi di temperatura in aereo e aeroporti.
E se fosse coronavirus?
Incontro i miei compagni di viaggio: Rickard, uno signore svedese che viaggia con Ali, suo cognato iraniano.
Sembra che il virus stia dilagando…
Mi consulto con i compagni di avventura e la mia guida sul da farsi.
Tra tempeste di sabbia, macchina rotta e abbandonata nel deserto. Contatto di nuovo l’ambasciata. Non c’è lo sconsiglio. Proseguo.
Non ci rimane altro da fare che caricare tutti i bagagli nella Magic Car, stringerci come sardine e lasciare il deserto….
Per evitare ogni possibile contagio, decido di isolarmi in un piccolo hotel tradizionale dove sono l’unica ospite. Sono a Kerman, città a 1000 km dalla capitale e che sembra essere l’unica città (ancora) non contagiata dal coronavirus.
Le giornate nella mia “prigione dorata” passano lentamente. La mia fantastica guida organizza un’escursione in tutta sicurezza. In due ore e mezzo arriviamo a Ravar per visitare il piccolo, isolato, fatiscente e affascinante Chahkoran caravanserai.
Mi concedo un’altra uscita “in sicurezza”. Una ragazza iraniana conosciuta in un precedente viaggio, mi invita a cena a casa sua. Ma prima mi porta a vedere uno dei giardini persiani che sono patrimonio UNESCO: Fathabad Garden
È il 5 marzo.
Alle 17.00 mi viene a prendere l’autista per portarmi all’aeroporto in dieci ore di viaggio circa.
Lo so, avrei potuto optare per una più comoda e agevole ora per partire, ma ho preferito ridurre al minimo il contatto con altre persone.
Anche questa, è una scelta che l’ambasciata italiana con cui sono stata costantemente in contatto, ha approvato elogiandomi per come ho affrontato, gestito, e superato questa crisi.
Salgo in auto e … mi ritrovo con un autista che non fa altro che tirare su il naso. Alla mia domanda “Is it a cold or coronavirus? Have you been checked?” Mi risponde ridendo “What do you think? No, no test. I only stay home for four days. Then I wanted to go out with friends.”.
Avrei voluto morire. Tutte le mie certezze sono crollate in un nanosecondo!
Lungo la strada ci fermiamo ad un check point turistico. Il giovane militare indossa guanti e mascherina.
Mi chiede di scendere dall’auto per mostragli passaporto e visto. Lo faccio e mentre glieli porgo, lui fa un salto indietro effetto “vade retro Satana“. Mi chiede di aprire i documenti per fargli vedere le pagine necessarie.
Per la prima volta mi sento un’appestata e allo stesso tempo mi dispiace averlo fatto spaventare.
Arrivo a Teheran, dopo aver viaggiato tutta la notte, in un aeroporto quasi deserto. Mi misurano la temperatura e mi rilasciano un certificato di buona salute che nessuno mai mi chiederà di controllare. I pochi viaggiatori presenti sono persiani che stanno cercando di rientrare nei paesi europei di residenza. Indossano tutti guanti e mascherina. Io compresa. Idem per tutti i passeggeri del mio volo.
Lascio l’Iran con le parole dell’addetto dell’ambasciata italiana a Teheran, che ho chiamato per salutare ed informare della mia partenza e ringraziare per avermi supportato e sopportato: “Signora la ringrazio per le sue parole e per essersi ricordata di noi e mi raccomando, lo dica che questo (l’Iran) è un bellissimo Paese ricco di storia che merita di essere visitato”.
Arrivo finalmente in Italia (6 marzo) non sapendo cosa mi aspetti. Ritiro i bagagli. Mi misurano la temperatura. Mi fermo a comprare il biglietto per il treno che mi porterà in città. Commento con l’addetta alla biglietteria “Beh! Tutto sommato la situazione è meno peggio di quello che pensavo”, lei mi guarda con aria preoccupata e mi risponde “No no, bisogna stare molto attenti. Ci hanno fornito le mascherine, ma non mi sembra il caso di metterla, per non spaventare i turisti”.
Domani arriverò a casa dove, per il senso civico che ogni persona dovrebbe avere, mi metterò in auto quarantena per il tempo necessario.
Durante il lungo viaggio in treno che mi porterà a casa mi viene un dubbio: arrivo da un paese e da una città (Milano) infette. Posso farmi venire a prendere da un’amica o ci sono particolari precauzioni da prendere?
Alterno le telefonate al numero verde dedicato a questa emergenza della mia regione e quello nazionale. Ci vuole tanta pazienza. Le linee sono intasate, ma alla fine mi risponde un operatore del numero nazionale. Ho trovato tanta professionalità, gentilezza e disponibilità. Mi dice che sono stata bravissima nel gestirmi e che quando arrivo a casa devo auto denunciarmi all’ufficio prevenzione dell’azienda sanitaria della mia regione. Ovviamente seguo le regole e per 14 giorni ricevo la telefonata di una voce che alla fine considero amica e che quotidianamente mi chiede come sto.
Ho finito il mio isolamento domiciliare fiduciario, ma nulla è cambiato. Come tante altre persone sono chiusa in casa.
Nelle due settimane di quarantena la spesa me l’hanno portata mia sorella alternandosi con un’amica, per cui l’ho ridotta all’osso, senza pretese particolari. E allora ho deciso di festeggiare andando al supermercato. E finalmente avere la libertà di scegliere senza limiti.
Piccole gioie al tempo del coronavirus….
Flaminia
Le foto del viaggio le trovate su IG: traveling_hawajia